25 Novembre 2013 • 1 commento
Una Londra diversa
Viaggi in EuropaOspito oggi un guest post di Chiara Tarasco, giovane blogger fiorentina che racconta il suo recente viaggio a Londra. Via libera alle sue parole!
Per spezzare il periodo di studio poco produttivo all’Università ho pensato bene di recarmi a Londra per raggiungere il mio fidanzato, lì in Erasmus, giusto una settimana.
Era la mia seconda volta a Londra, una prima volta a Marzo scorso pochi giorni con le amiche, una vacanza dinamica, di corsa tra i mille musei e le mille attrazioni londinesi. Certamente bella, ma frenetica. Forse perchè era la prima volta in questa città.
Questo secondo viaggio è andato diversamente: ho trascorso giorni immersa in una città non mia, che conoscevo a malapena, e soprattutto da sola. Da soli ci si rende conto di molte più cose, si ha una visione completa di dettagli che generalmente vengono trascurati o per la fretta, o per disattenzione. Ci si sofferma sugli angoli nascosti dove capiti per caso, anche per sbaglio.
Ho avuto modo di tuffarmi in una realtà diversa dalla mia a Firenze, una realtà più grande, più luccicante, più. La mia sensazione da turista in parte solitaria è che Londra sia tutto e niente.
Prima di ogni cosa, però, è un insieme eterogeneo di persone: camminando per le arterie principali della città, una fra tutte la centrale Oxford Street, ci si accorge immediatamente della quantità di qualità che differenziano gli individui. A primo impatto si viene travolti da una massa di gente, da un flusso continuo e incessante di gambe in movimento.
All’interno di questo ‘fiume umano’ si distinguono il bambino avvolto in un costume da leone, una processione di donne dal viso e dal corpo coperto, il ragazzo che sfreccia con il suo skateboard non curante di tutti gli altri che gli passano accanto. E non finisce qui. Ma ciò su cui mi sono soffermata, in realtà, è appunto la non curanza. Non curanza in termini di mancanza di attenzione, una sorta di indifferenza; ma non da un punto di vista negativo, come si suol pensare. Anzi, le persone quì non si soffermano troppo sulle altre come spesso accade da noi, ognuno si occupa puramente di se stesso. In un modo o nell’altro, però, qualcosa sembra contraddistinguere tutti: un’instancabile fretta. Se, camminando per una via qualsiasi, ci dovessimo fermare di colpo verremmo travolti dalla gente; sono tutti velocissimi, si fanno strada con grande rapidità e non si riesce a capire davvero se abbiano tutta quella fretta per un motivo specifico, oppure se ormai i loro piedi si siano abituati al passo londinese.
Il primo giorno inizia sotto un’incessante pioggia tipica di Londra. È quella pioggerella che non smette mai, così fina e piccola che ti porta a non aprire l’ombrello o forse, come me, a non portarlo proprio. Per poi ritrovarsi bagnati fradici dalla testa alla punta dei piedi, senza nemmeno essersene accorti.
Decido di avviarmi verso la National Gallery per iniziare la mia giornata e come sempre rimango affascinata dapprima dalla struttura architettonica imponente del palazzo che si affaccia su Trafalgar Square e poi, chiaramente, dai quadri esposti al suo interno.
La pittura fiamminga di Jan Van Eyck, quella italiana di Piero della Francesca, di Tiziano, di Paolo Uccello, di Botticelli e di Leonardo da Vinci. Incredibili. Per poi passare a Velasquez e Hayez, con la sua opera “Susanna at her Bath” in cui la luce accarezza il corpo della donna in modo quasi impalpabile. E per concludere con Van Gogh e i suoi innumerevoli dipinti costantemente sovrastati da una folla di persone e quindi difficilmente visibili. È pazzesco come, seppur fosse la mia seconda volta alla National Gallery, io sia rimasta di nuovo attonita davanti a tutto quel lavoro, a tutta quella bellezza.
All’uscita della National Gallery mi si avvicina un ragazzo di Londra, che studiava in una scuola lì vicino e, chiacchierando, mi propone di andare a vedere un dettaglio di quella zona di Londra generalmente sconosciuto ai turisti: un naso in branzo incastonato in una colonna.
Mi racconta che dicono toccarlo porti moltissima fortuna, e mi viene da ridere, dopo averlo toccato, perché a Verona, città da dove provengo, milioni di turisti sono soliti toccare “la tetta della statua di Giulietta” e a Firenze, città dove studio, c’è il porcellino vicino a piazza della Signoria.
Da lì mi sono avviata verso la Somerset House. Anche quì, di nuovo, la struttura immensa mi fa sentire davvero piccina. Entro e mi perdo date le innumerevoli sale di cui è composta. La struttura è a forma di una sorta di quadrato in cui si articolano gli spazi delle mostre e al centro del palazzo si fa spazio un cortile interno in cui, in quell’occasione era stato montato un palco di ghiaccio in cui i bambini si divertivano a pattinarci sopra.
Le mostre erano davvero tantissime, troppe. E così ho deciso di concentrarmi su due: “Forgotten Spaces” e “Welcome to Happy Rodoubt“.
La prima era un percorso di sale nel seminterrato del palazzo, per metà all’aperto e per metà dentro spazi e corridoi ricavati nella roccia. In ogni parte dell’esibizione venivano illustrati i possibili utilizzi immaginari di alcuni spazi ormai abbandonati di Londra. È stato interessante vedere quanto ingegno e precisione stanno dietro ad idee così innovative. Quasi impensabili.
La seconda parte della mia visita si è concentrata su “Welcome to Happy Redoubt“, un progetto particolare realizzato dal King’s College di Londra in collaborazione con UP Projects.
In questo spazio ci si immagina il mondo dopo un disastro globale che ha distrutto tutte le infrastrutture tecnologiche che conoscevano e utilizzavamo. La cosa più divertente è che tutta questa parte di mostra era composta di sale attrezzate a workshop per far entrare le persone all’interno dell’atmosfera strana che si sono preoccupati di creare. In un primo workshop la stanza era stata riempita di robot piccolini che rispondevano ad ogni tipo di domanda posta da chiunque volesse, nel secondo gli utenti erano invitati a colorare collane di robot in legno per poi scambiarseli tra di loro, e infine una lavagna in cui scrivere come sarebbe stato il mondo senza nessun tipo di tecnologia. Devo dire che è stata un’esperienza a metà tra lo strano e l’accattivante.
Per leggere la prosecuzione di questo racconto.. Stay Tuned!
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